N10 fermata Ottaviano (23 luglio 2014)
Il mio autobus è il 23: da giocare su tutte le ruote di Roma. Non ho mai capito se per qualcosa che c’entri col karma mi porti ovunque io voglia andare o se per pigrizia ho lasciato che tutta la mia vita fosse condizionata dalla sua corsa. Se ho limitato il mio raggio d’azione da piazzale Clodio a Basilica di San Paolo per non subire la noia di cambiare mezzo.
La mia corsa è l’ultima, quella che miracolosamente t’affranca dal purgatorio dell’attesa del 10, il notturno.
Io e il 23 siamo una cosa sola. La fermata non è sotto casa mia: è un suo prolungamento. Ci arrivo sorseggiando un vodka-tonic alla mia maniera: quasi tutta vodka ed una spruzzata di tonica che faccia credere al mio cervello che non mi sia trasformata in una di quelle donne dell’est che bevono il giovedì ai giardinetti camuffando la bottiglia in sacchetti di carta. E con oltraggiosa scollatura a favor di carreggiata. Sarà per questo che ho sempre riscosso un inspiegabile successo con gli autisti. Mi riconoscono da chilometri. Monto su, fanno cenno di avvicinarmi e a fine corsa sono a conoscenza di ogni insignificante particolare della loro esistenza. Mi piace raccogliere confessioni spontanee di sconosciuti che quasi certamente non rivedrò. È il mio talento. Almeno quanto sentirmi parte di quella sintesi di disagio che sono i bus di notte. C’è l’ubriacone che dorme, l’ubriacone che delira e poi ci sono io: l’ubriacona che fissa gli ubriaconi.
Ci sono le americane in minigonna e ciabatte da doccia che disinvolte mettono in mostra gambe tozze, cadaveriche e a chiazze rossastre. Senza pudore. Ci sono i magrebini che le scrutano muti. Le spagnole che farfugliano sguaiate di feste e cerveza passandosi il bottellon. Un intruglio di vino in cartone e cola da discount che ti va dritto dritto al cervello bombardandoti neuroni e freni inibitori.
E poi c’è una signora agèe assai elegante. La incontro spesso. È composta, ben truccata, vestita di classe. Ha i capelli raccolti in un piccolo chignon che lascia scivolare via due ciocche che le ammorbidiscono i lineamenti del viso scarno e solcato dalle rughe. È bella. Di tutta la gang, il personaggio più strano. Ogni volta che la incrocio, di notte sul 10, un altro concentrato di alcolisti e gentaglia da evitare, mi domando cosa ci faccia lei lì. Una così, in mezzo a noi balordi. È difficile capire quale sia il minimo comun denominatore che unisce alcune specie umane in un medesimo habitat. La signora dello chignon resta in silenzio, impassibile per l’intero tragitto. Così composta che nonostante gli olezzi di alcol, spezie e indumenti fetidi pare circondata da amiche in principe Galles in una sala da tè. Invece è lì, in quello stesso girone in cui noialtri tentiamo di dare un senso alla nostra esistenza buttandola via. Allora provo a giustificare quest’ossimoro sociale fantasticando che sia un’infermiera – di quelle arruolate quando ancora per una donna era una posizione di un certo prestigio – che torna dall’ennesimo turno in ospedale, sopportando disagi e compagnia semplicemente alienandosi. Aggrappandosi al conto alla rovescia dei giorni che la separano dall’agognata pensione che a breve l’affrancherà dall’estenuante rituale, e da noi.
Chissà che fine faremo noi, invece? Su quale numero finiremo a rimuginare a quanto lontani saremo arrivati dalle nostre aspettative? Mentre i nostri sogni di gloria, costruiti sulle illusorie fondamenta di crederci altro dai nostri compagni di corsa, saranno giunti al capolinea della consapevolezza che noi di quell’affair eravamo parte integrante.
Carla Monteforte è una socialite professionista e make-up addicted, prestata occasionalmente al giornalismo. Se non è a Cosenza, Roma o Madrid, provate al bar