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Le fiere degli altri (da il Garantista 20 marzo 2015)

Somiglia all’estate la fiera, quella stagione sempre uguale a se stessa ma dalla quale ogni volta ci si aspetta un colpo di scena finale. Un affare, un amore, un tento omicidio. È il fiume di Eraclito dalle cui acque apparentemente identiche non esce mai fuori lo stesso bagnante, ma un uomo diverso dall’esaurito che vi si era tuffato in pausa pranzo: più povero e più compulsivo. La settimana dell’orgullo dei maniaci e degli accumulatori seriali ogni anno spacca il mondo a metà, dividendo il genere umano in due blocchi: quello dei fanatici e quello dei boicottatori. E negli ultimi tre giorni, al mercato, inutile dirlo, c’erano entrambi. Il talebano che “perché la fiera di San Giuseppe non si fa più a Lungocrati?”, il tormentato che non guarda tv e non frequenta bancarelle finitovi per colpa dell’eclissi, il discotecaro tutto Mdma e marshmallow fianco a fianco con la signora in Burberry, la signora in ciabatte, la signora in giallo e la signora appartatasi nella traversa col senegalese. Tutti riuniti sotto uno stesso cielo in questo Asylum all’aperto allestito in pieno centro città. Del resto, cosa c’è di meglio che mettere da parte le vecchie diffidenze e ritrovarsi tutti insieme appassionatamente in uno stesso luogo per far finta di non conoscersi? Il bello della fiera è proprio questo, buttarsi nella mischia ed uscirne ancora più asociali. Ogni 19 marzo si apre questo enorme buco nero che risputa fuori la qualunque: soggetti che credevi mummificati dopo il diploma che si manifestano da quello dei piatti facendoti scoprire, con sommo sgomento, che non erano deceduti, si erano semplicemente riprodotti; e poi gente che credevi esistesse solo online che si materializza in carne ed ossa, gente che credevi esistesse solo su Nat Geo che si materializza tra i vimini e gente che credevi esistesse solo in galera che si materializza a piede libero. Praticamente la lista “persone che potresti conoscere” di Facebook che equivale a persone che hai sempre evitato (sui social e su Corso Mazzini). Vale la pena investire gli ultimi spicci per godersi dal vivo questa passerella di fenomeni che manco Discovery. E lasciare che gli altri si godano noi. La fiera è democratica: ognuno, tra un tritaverdure e un profumo Camel, mette in gioco se stesso sacrificando un po’ della propria superbia, del proprio stipendio e del proprio decoro all’altrui autostima. Perché mentre noi siamo impegnati a ridacchiare dietro il risvoltino del paesanotto sceso dalle montagne per farsi il guardaroba nuovo, un paesanotto in risvoltino è impegnato a immortalare il nostro sederone per deriderlo nel suo gruppo Whatsapp. C’è chi la ama e chi la odia questa primavera araba come il kajal del marocchino che parla napoletano che non ci ha voluto togliere cinquanta centesimi sulla matita Dior tarocca ché quei centesimi gli servono per portare a giugno la moglie salernitana in un beauty center di Dubai, ma alla fine come sempre ci andiamo tutti. Per fare affari, per fare mano morte, per fare brutto, per dare sfogo a ogni sorta di disturbo alimentare e del comportamento in genere. La verità, però, è che ci andiamo tutti per sentirci migliori. Ecco perché nonostante gli olezzi, gli accoltellamenti, Ron, Fausto Leali, la merce cinese, gli stalker, gli zingari, i negri, il traffico, la culona col leggings bianco e il perizoma nero tra un anno esatto ci ritroveremo – la sciura della Cosenza bene, il fashion victim con dipendenza da anfetamine, la cougar con dipendenze da manzi subsahariani, ed il tormentato che odia Sanremo i mercatini e noi tutti – a fare abluzioni in questo stesso Gange che di portentoso, oltre alla pompa annaffiatrice che si allunga, ha solo di illuderci ogni volta di essere altro dagli altri.

Io ci sono #papapride2014 (il Garantista, 22-06-2014)

Se papa Giovanni Paolo II era una popstar, Francisco è una estrella latina. La versione caliente e moderna dei Vatican Vip (very,important, pontefici), lanciata dalla sacra Major per sedurre l’enorme mercato latino e ricondurre al gregge milioni di pecorelle smarrite nel word wide web. Presenzialista più che un feat di Pitbull, la tournèe della latin star, ha fatto infine tappa in Calabria: e vai con i miracoli. Primo fra tutti: la moltiplicazione dei satiri e dei selfie. Innumerevoli i corrispondenti da Cassano per la web-diretta social. Tra loro Don Tommaso Scicchitano che dallo Ionio fa sapere “Io ci sono”, parafrasando la campagna delCalabria Pride. #PapaPride2014 si hastagga infatti, per poi aggiungere “Peccano ma non sono dissapiti” facendo il verso allo slogan (“Piccano ma non peccano”).

L’agenda setting è l’oppio dei popoli, lo sa bene il fumettista Luca Scornaienchi: “Ormai è ufficiale: Papa Francesco aprirà il concerto dei Rolling Stones”. Ed essendo questo oltre che il Bergoglio day la settimana mondiale dei luoghi comuni perché non ricordare che la Calabria potrebbe vivere solo di turismo ma senza servizi e infrastrutture adeguate questo non sarà mai possibile? A tal proposito la web-star Sara Ruggieri mostra il suo disappunto: “Comunque, portare il Papa in Calabria e non fargli vedere la Sila è come andare alle cascate del Niagara senza vedere le cascate”. E sui disservizi la segue Sandro Pezzi:“Papa Francesco arriva a Castrovillari in elicottero scende saluta i calabresi e poi esclama: A Salerno Reggio Calabria va faciti vua!!”.Per il resto Iole Perito rassicura la mamma di restare devota al tacco 12, Luca Morrone e consorte aspettano la papa-mobile a suond’autoscatti e tra un papa-boy ed un pellegrino c’è chi si ristora con un bel gelato “gusto Papa”. E’ il marketing, bellezza! Quel sacro ramo dell’economia che a volte racchiude misteri più criptici di quelli di Fatima tipo: com’è possibile che il merchandising abbia avuto più successo con Bergoglio che con Ratzinger quando con i cambi d’outfit del secondo si potevano fare dieci edizioni di figurine Panini? Ma questo non diciamolo sennò ci scomunicano (o, peggio, ci defollowano).

Carla Monteforte

 

 

N10 fermata Ottaviano (23 luglio 2014)

Il mio autobus è il 23: da giocare su tutte le ruote di Roma. Non ho mai capito se per qualcosa che c’entri col karma mi porti ovunque io voglia andare o se per pigrizia ho lasciato che tutta la mia vita fosse condizionata dalla sua corsa.  Se ho limitato il mio raggio d’azione da piazzale Clodio a Basilica di San Paolo per non subire la noia di cambiare mezzo.

La mia corsa è l’ultima, quella che miracolosamente t’affranca dal purgatorio dell’attesa del 10, il notturno.

Io e il 23 siamo una cosa sola. La fermata non è sotto casa mia: è un suo prolungamento. Ci arrivo sorseggiando un vodka-tonic alla mia maniera: quasi tutta vodka ed una spruzzata di tonica che faccia credere al mio cervello che non mi sia trasformata in una di quelle donne dell’est che bevono il giovedì ai giardinetti camuffando la bottiglia in sacchetti di carta. E con oltraggiosa scollatura a favor di carreggiata. Sarà per questo che ho sempre riscosso un inspiegabile successo con gli autisti. Mi riconoscono da chilometri. Monto su, fanno cenno di avvicinarmi e a fine corsa sono a conoscenza di ogni insignificante particolare della loro esistenza. Mi piace raccogliere confessioni spontanee di sconosciuti che quasi certamente non rivedrò. È il mio talento. Almeno quanto sentirmi parte di quella sintesi di disagio che sono i bus di notte. C’è l’ubriacone che dorme, l’ubriacone che delira e poi ci sono io: l’ubriacona che fissa gli ubriaconi.

Ci sono le americane in minigonna e ciabatte da doccia che disinvolte mettono in mostra gambe tozze, cadaveriche e a chiazze rossastre. Senza pudore. Ci sono i magrebini che le scrutano muti. Le spagnole che  farfugliano sguaiate di feste e cerveza passandosi il bottellon. Un intruglio di vino in cartone e cola da discount che ti va dritto dritto al cervello bombardandoti neuroni e freni inibitori.

E poi c’è una signora agèe assai elegante. La incontro spesso. È composta, ben truccata, vestita di classe. Ha i capelli raccolti in un piccolo chignon che lascia scivolare via due ciocche che le ammorbidiscono i lineamenti del viso scarno e solcato dalle rughe. È bella. Di tutta la gang, il personaggio più strano. Ogni volta che la incrocio, di notte sul 10, un altro concentrato di alcolisti e gentaglia da evitare, mi domando cosa ci faccia lei lì. Una così, in mezzo a  noi balordi. È difficile capire quale sia il minimo comun denominatore che unisce alcune specie umane in un medesimo habitat. La signora dello chignon resta in silenzio, impassibile per l’intero tragitto. Così composta che nonostante gli olezzi di alcol, spezie e indumenti fetidi pare circondata da amiche in principe Galles in una sala da tè. Invece è lì, in quello stesso girone in cui noialtri tentiamo di dare un senso alla nostra esistenza buttandola via. Allora provo a giustificare quest’ossimoro sociale fantasticando che sia un’infermiera – di quelle arruolate quando ancora per una donna era una posizione di un certo prestigio – che torna dall’ennesimo turno in ospedale, sopportando disagi e compagnia semplicemente alienandosi. Aggrappandosi al conto alla rovescia dei giorni che la separano dall’agognata pensione che a breve l’affrancherà dall’estenuante rituale, e da noi.

Chissà che fine faremo noi, invece? Su quale numero finiremo a rimuginare a quanto lontani saremo arrivati dalle nostre aspettative? Mentre i nostri sogni di gloria, costruiti sulle illusorie fondamenta di crederci altro dai nostri compagni di corsa, saranno giunti al capolinea della consapevolezza che noi di quell’affair  eravamo parte integrante.

E la chiamano estate

Lenta scorre l’estate. Un filo d’acqua senza forza che ansima da un rubinetto scassato. Abbiamo sete da così tanto tempo che ci siamo abituate, non l’avvertiamo più. Pure le oasi costruite granello per granello dall’inesperienza sono un vago ricordo. Ovunque, deserto.

Eppure bruciavamo così tanto. Bruciavamo così forte che per non esplodere trascorrevano la vita sotto le più forti cascate del mondo. Così imponenti e violente che il getto ci stordiva e restavamo fradice per giorni. Anni. Siamo rimaste senza sensi per così tanto tempo che, quando ci siamo riprese, era già trascorsa quasi tutta l’esistenza. Da sola. Come una film che scorre mentre in platea tutti dormono. Un party che va avanti mentre la festeggiata è in coma etilico su un divano. Un acceleratore premuto da un conducente strafatto.

Eravamo strafatte, noi. Strafatte di noi stesse. Le più sciocche e viziate macchiette che la terra avesse mai visto. Delle creature oscene che saltellano qua e là senza idea dello spazio e del tempo. Come se il futuro fosse la luce che s’intravede da dietro una tenda. Come se il futuro fossimo noi. Qualcosa che è lì, a portata di mano. E aspetta che nel frattempo decidiamo se piastrarci i capelli.

Che stupide.

La milionesima estate della nostra vita è questa. Che fortuna, no? Un film visto talmente tante di quelle volte che mentre lo replicano possiamo mettere in ordine l’armadio e ripetere le battute col labiale aspettando che la sigla finale giunga a liberarci dalla trama. Chissà, forse tra i titoli, stavolta, scorrerà un nome nuovo. Una malcapitata new entry che ha deciso di fare il grande salto entrando nel cast. Come se da una produzione scadente potesse nascere mai una stella. Di stelle non se ne vede nemmeno una in giro. La mattanza delle speranze e dei rossetti è l’estate.

Uno di quegli orrendi balli di gruppo, con animatore che impartisce ritmo e passi da sotto una camicia improbabile.

Ma come si fa a prendere ordini da gente vestita così?

C’è bisogno di una sana dose di sano classismo, per restare immuni al contagio delle mandrie infette da quel malato spirito collettivo che noi, fortuna nostra, non abbiamo avuto mai. Nemmeno quando ci consumavamo i sottotacchi cercando pace tra un night e cento altri. Eravamo dei proiettili vaganti, tutto qui. Proiettili vaganti in mezzo ad altre pallottole.

Lo siamo ancora. Anche adesso che degli strani tizi,  mossi da chissà quale convinzione, tentano di convincerci che è questo il futuro. Questo bugigattolo traballante che non somiglia a nessuno dei nostri programmi. Che non somiglia a noi.

Forse dovremmo arrenderci. Forse ci siamo arrese chissà quanto tempo fa e non ce ne siamo accorte, sicure com’eravamo di fare in tempo. Tanto i treni, gli aerei, il futuro, da qui, non partono mai in orario.

Intanto l’estate ci gira intorno come una malattia. Un’untrice con fare sospetto che aspetta il calo d’attenzione delle nostre difese immunitarie. Un pusher che fischietta nel quartiere di un paziente appena dimesso da un lunghissimo rehab.

È spietata l’estate. Non dovremmo mai fidarci di lei. E lei di noi.

 

Pasqua: molte uova, poche sorprese (pubblicato sul Quotidiano della Calabria, 12 aprile 2009)

È Pasqua: tempo di immolare i vitelli grassi all’ingordigia dei figlioli prodighi che, dopo aver sperperato, e tentato, fortuna nelle discoteche labirinto d’oltre confine, fanno rientro alla casa del padre per compatire i fratelli più sventurati, condannati ad abitarvici a tempo indeterminato. (Ironia del destino)

Tutti – adulteri, pagani, fornicatori – sono posseduti da un’insolita gaiezza che per nulla contrasta con il senso di colpa intrinseco alla natura stessa della festa e alla propria. Peccare non è un’azione involontaria. Non avviene a caso. Mai. Nel piacere del peccato è sottinteso, ed indispensabile, il rimorso: ovvero la consapevolezza piena di contravvenire ad una norma o ad un principio mentre la si sta contravvenendo. Come assumere un antidolorifico dopo aver accuratamente letto le controindicazioni sul libretto illustrativo o ingurgitare un sacchetto di arachidi dopo aver visto il numero delle calorie sulla confezione. Solo molto più dilettevole.

Per affrontare le feste, una cosa è certa, ci vuole coraggio: non si sa mai se ne si uscirà fuori. E come.

Tuttavia viverle è d’obbligo: una clausola che si sottoscrive quando si decide di esistere. È assolutamente necessario, quindi, munirsi d’una dose massiccia di spudoratezza e rinunciare a qualsivoglia istinto di sopravvivenza. Le feste sono piste rosse da percorrere in discesa libera: persone responsabili astenersi. (Non è affare per voi) Celebrarle degnamente significa fare di tutto per mettere a repentaglio la propria incolumità: fisica e psichica. Continuamente e ripetutamente.

Le gabbie si spalancano al primo rintocco di campana ed ogni esemplare d’ogni razza, d’ogni pianeta e d’ogni identità di genere abbandona lo zoo in cui s’era autoconfinato, sentendosi autorizzato a imporre se stesso al resto degli esseri viventi del mondo.

Le strade, le chiese, i bar si popolano di lupi assetati di vino e affamati d’agnelli. Questi, sebbene impauriti, mossi da raptus d’avventatezza, abbandonano i greggi sicuri e si confondono anch’essi nella mischia danzante, pronti ad offrirsi in sacrificio in onore di una degna, seppur breve, esistenza e della altrui Pasqua. In cambio solo d’un momento di gloria. Le feste sono anche questo: un pretesto per sacrificare una vittima, o crocifiggere qualche povero cristo, sentendosene legittimati. O, di contro, l’occasione di tentare il grande salto, pur consci di schianto certo. Tutto il resto è gola.

Smaltiti due o tre grammi dei panettoni di Natale, per tornare felici, è indispensabile riaccumulare nuove riserve di senso colpa. Perché sempre alla colpa si ritorna: il più umano, cristiano, fondamentale e divertente tra i sentimenti. Senza, le feste non avrebbero motivo di essere. E nemmeno noi. È come se il peccato originale ci avesse rese delle party-trotters. E per purificarci fossimo costrette a peccare ancora. Il paradosso.

Si salta da un sepolcro ad un bancone e da un bancone ad un sepolcro in cerca di pace e del salvatore (sobrio e patentato). Ci si bagna di folla per misurare la propria storia personale: contare i superstiti, mettere una croce sui defunti, valutare le nuove risorse umane. O, sempre più frequentemente, meditare su qualche candidatura di ripescaggio.(Sconsigliatissimo)

Discoteche e terrazze altro non sono che un enorme ufficio casting affollato di soggetti da visionare, provinare e rispedire nuovamente al mittente, nella maggior parte dei casi. Roba da talent scout professionista. È come fare un campionario per la stagione futura con un vasto assortimento di merci e a prezzi davvero vantaggiosi. Scelti i capi giusti, si può procedere con la Pasquetta, il pensiero fisso dell’umanità. E qui entrano in campo i socialites consumati. Perché, per essere di tendenza, è assolutamente vietato seguirla. Bisogna inventarla.

I termini mare e montagna sono termini assolutamente troppo generici, bisogna essere più precisi: la località giusta è poca cosa, bisogna azzeccare la casa giusta e il casting giusto. Ovvero: individui della cui luce si ama brillare, ragazze promiscue, alcolizzati, bulimici e qualche disadattato (che, oltre a numero, fa sempre scena.)

E poi varie ed eventuali.

Il segreto dell’essere esclusivi è adoperare il più alto e complesso criterio di selezione esistente: selezione zero. Soprattutto perché è Pasqua e bisogna essere buoni e caritatevoli (con se stessi e con l’umanità), e non farsi mancare nulla. Individui borderline innanzitutto. Bisogna lasciare spalancate le porte (letteralmente) e permettere l’ingresso a tutti i cristi, indistintamente. Solo così si potrà arricchire il proprio curriculum di vergogne, le rubriche altrui di numeri ed il proprio facebook di stalkers. Sotto il segno della vera fratellanza cristiana. E seguendo gli insegnamenti del Messia e della sua crew. Il tutto in un alone di frittata e di quasi estate. Perché, tra i tanti, della festa del lunedì l’imbucato d’onore è la tant’attesa calda stagione che sembra quasi voglia farsi aspettare, di cui la pasquetta è l’entrèe. Il trailer di “Sapore di mare”, in versione venti o trenta anni dopo.

Qualche Lazzaro riuscirà ad alzarsi dal cenacolo urlando al miracolo. I Giuda tradiranno dietro il pattino puntando poi il dito contro l’alcol. Le Maddalene, ubriache, piangeranno cercando consolazione tra le braccia del primo apostolo che passa. Pietro criticherà la location, rinnegandola. E molti snobberanno l’unica tappa dell’anno del Redemption Tour (l’originale) per ballare al rave organizzato da dj Barabba. Tutto secondo il sacro e immutabile canovaccio della Semana Santa: ci si ammazza di festa e poi, per risorgere, servono almeno tre giorni. È così da sempre: molte uova e poche sorprese.

Un paio di mea culpa e Amen.

Perversioni di settembre

 

C’è un che di perverso nella fine dell’estate. Al mare gli ombrelloni si chiudono su passioni, e missioni, ancora incompiute, generando una sorta di bulimia emotiva. Mentre più su, trai monti, l’ossigeno dai polmoni fa trekking sin al cervello occupando la vetta dove prima dimorava lo stress. Ma il relax, tra le insidie, è la più subdola: è una vetta che si raggiunge dopo una spossante scalata e che precede una rischiosa discesa. Oltrepassatane la cauta soglia, i pensieri, ormai sin troppo sani e rinvigoriti, vanno in cerca di piste rosse – imbattute – divenendo incontrollabili.

Perché se è vero che rilassarsi è un toccasana, è anche vero che, come ogni medicamento, contiene al suo interno un libretto illustrativo che riporta, alla voce “controindicazioni”, una chiara avvertenza: “non assumere oltre la dose consigliata”. (Altrimenti si rischiano effetti collaterali)

La verità è che nulla stanca più che il riposo. E il fascino della tant’attesa calda stagione – il motivo stesso per cui è tanto attesa – è che come la passione è bollente e (soprattutto) ha una data di scadenza prestabilita. E non v’è cosa al mondo più desiderabile, godibile (e sopportabile) quanto quella di cui s’intravede la fine. È come le offerte speciali di Mc Donald’s, quel panino greco che nessuno comprerebbe se il suo permesso di soggiorno, sulle griglie, non scadesse dopo una manciata di giorni.

Tuttavia, quando volge all’epilogo, ai fortunati che riescono a sopravviverle – come se quel che è stato superato non bastasse – tocca affrontare un’ultima, ennesima fatica: decidere se cedere alle lusinghe di quella forza centripeta che spinge ad aggrapparsi ad un agosto morente, affinché prolunghi il più possibile il suo cursus, come se, colti da indomabile macabro vouyerismo, si volesse assisterne alla dolorosa e estenuante agonia; oppure optare per la dolce eutanasia, lasciandosi trascinare da quella forza centrifuga che conduce nel buio tunnel alla cui fine abbagliante è la temuta luce settembrina. La fine dei giochi.

Che però non corrisponde assolutamente alla resa delle armi. Tutt’altro. Perché, deposti i buoni propositi di giugno – andati in fumo sotto il solleone – tutto ciò da cui si era fuggiti diviene di nuovo, e di colpo, diabolicamente suadente.

Un’indomabile bramosia preme a ritornare a calpestare la vecchia via dei propri errori, dei propri vizi e delle proprie abitudini. Buone o cattive che siano. Quel tragitto in cui si è certi di incontrare luoghi e persone di cui, a finir di primavera, urgeva disintossicarsi.

Perché, superata la canicola, l’unica vera novità è la routine. Un’invitante trasgressione destinata agli esseri umani medi soltanto: malinconici, avversi alle abitudini, soggetti a toedium vitae e normalmente borderline. Ma proprio quando questo dramma raggiunge il climax – quando Amleto deve scegliere tra l’essere ed il non essere – accade qualcosa di sorprendente che tinge di giallo la parabola tutta: un buco nero si apre risucchiando al suo interno gran parte del genere umano. Le spiagge si svuotano, le montagne si spopolano, ma le città, misteriosamente, continuano ad esser deserte. (Roba da chiamare “Chi l’ha visto?”.)

Forse l’indecisione scava profonde trincee. Terre di mezzo, ignote ad amici e nemici -estivi e invernali che siano – in cui, per un attimo ancora, si resta al sicuro. Prima di lanciarsi in una nuova “campagna d’autunno”.

(pubblicato sul quotidiano Calabria Ora il 27 agosto 2008)

CALL ME – Il darwinismo del telefono: ovvero la sua evoluzione inversamente proporzionale alla nostra (Capitolo I) 28-05-2014

 

Lavita è quello che ti accade mentre stai aspettando che un cretino ti richiami.

Avremmo avuto bisogno di un John Lennon anche noi. Di qualcuno che ci amasse e ci spiegasse che la felicità è una pistola fumante. E, soprattutto, che ci telefonasse tutte le sere.

A  noi, non ci chiamava mai nessuno.

Ovviamente se in quel nessuno non si considera il segaiolo che mi cercava ansimando nel cuore della notte, i militari, gli ex mutati in stalker ed il kuwaitiano.

Il kuwaitiano era un altro nano, semi-obeso, con due lunghi baffi made in Medioriente che aveva raccattato A all’Alien. Lei era reduce da uno dei suoi finti svenimenti, quelli che metteva in scena quando si stava annoiando per convincere me, ancora in piena caccia, di tornarcene a casa. L’aveva agganciata con la scusa d’un’intervista. Come, non si sa, visto che lui non spiccicava una parola d’italiano e lei in inglese sapeva solo “Hopelessly devoted to you”. Da questo rimorchio era nata una lunga relazione di amplessi telefonici interrotti. Interrotti da un urlo, al suo pronto, e repentino lancio della cornetta in mia direzione. Ero l’unica a parlare inglese (la scusa ufficiale).

“You have gun in your eyes”, mi sussurrava il barilotto con accento da terrorista innamorato. E altre porno-romanticherie tipo: “Mersedes”, “Via Vinèto”.

 Il kuwaitiano resta tuttora l’unico ricco da cui saremmo state corteggiate in vita nostra.

Lui voleva comprare la nostra compagnia a suon di petroldollari. Noi, sempliciotte, ci credevamo delle mantidi meditando di farci pagare la bolletta Telecom.

Nota dolente.

A quel tempo la nostra unica fonte di sopravvivenza era il bancomat. Tra tutti i lavori che avremmo avuto, il migliore.

Era bello essere figlie di papà: il miglior ruolo possibile in società. E chiunque dica il contrario, dice una cazzata.

Il mondo era un luna park. E noi stavano sempre sul tagadà: in quella condizione di mezzo che sta tra un sussulto al cuore e un conato. Lasocietà era spaccata in due: quelli che si fingevano poveri e quelli che si fingevano ricchi. Noi non ci fingevamo niente: eravamo noi. Non avevamo contezza di alcun altro mondo al di fuori del nostro. Delresto ovunque andassimo eravamo allegramente disadattate (ma questo non scalfiva in alcun modo la nostra autostima: ci bastavamo).

Quelli che avrebbero dovuto essere i nostri simili, alla metà del biennio, per darsi un tono avevano assunto un’aria finto-stressata: “Corsi. Esami. Esoneri.” . Noi non sapevamo nemmeno di cosa parlassero: eravamo turiste. (Questadote ce la saremmo portata avanti tutta la vita)

Ci svegliavamo rosa e fresche come nocepesche al sole e prima ancora di posizionarci in verticale già stavamo pianificando gli imminenti obiettivi di guerra.

La nostra vita era un fine settimana senza fine. Il nostro guardaroba ne era il sintomo più evidente: non c’era un capo da giorno. Tutto stretching e lucido. Avevamo letto nei titoli di coda di Generazione X, credo, che Ambra in tv si truccava con cerone e cipria trasparente. Di corsa eravamo andate da Studio 13, la profumeria teatrale di piazza Cavour, a procurarceli: Kryolan, per cinema e tv.

E che ce ne importava a noi? Non avevamo nemmeno 20 anni e la nostra pelle era quanto di più simile ci fosse alla perfezione. Ci davamo dentro con quello stick fino a spazzar via ogni residuo di parvenza umana.

In foto sembravamo dei fantasmi: ci sentivamo giustissime.

Il bello della giovinezza è proprio questo: essere totalmente sbagliate.