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L’intifada pop delle Hadid

Prima di Gigi e Bella la Palestina era roba da radicali  

“Le hadid hanno aperto un varco” l’ha detto un attivista che nella pioggia di bombe su G@za ha appena perso due amici, due reporter. 

Già prima della drammatica escalation di violenze dell’ultimo mese Gigi e Bella avevano trasferito la questione palestinese dai ghetti intellettuali (o radicali) al mainstream. Dal rock al pop. Dai centri sociali a Vogue. Il loro endorsement ha gettato luce su una vicenda invisibilizzata e creato più di una crepa nel consolidato stigma che confonde palestinesi e terroristi. 

Un impegno che, in un Paese che è principale alleato dello Stato ebraico – gli Stati Uniti – le modelle e influencer hanno pagato con la perdita di contratti, relazioni sociali ed una serie di attacchi diretti dai social ufficiali dello Stato di Israele (e da Gal Gadot, la Wonder Woman con la stella di David).

In particolare, a maggio 2021 – a seguito degli sgomberi forzati di Sheikh Jarrah, delle irruzioni nella moschea di al-Aqsa durante il Ramadan e degli scontri violenti che seguirono tra forze israeliane e palestinesi della Cisgiordania – la solidarietà espressa ai numerosi morti e feriti di quegli accadimenti e la condanna ai coloni e alla segregazione fece guadagnare alle figlie di Mohamed Hadid (e della Real Housewife of Beverly Hills Yolanda) una pagina intera del New York Times comprata da inserzionisti che le accusavano di antisemitismo definendole influencer di Hamas. Ovvero da Shmuley Boteach, il rabbino più famoso d’America secondo il Washington Post, tra i 10 rabbini più influenti  d’America (secondo Newsweek), tra i 50 ebrei più influenti nel mondo secondo il Jerusalem Post. Nonché star dei reality. 

Nel mirino di Boteach pure Dua Lipa, finita nella gogna di colui che fu tra le altre cose  consulente spirituale di Michael Jackson, per il sostegno ai palestinesi. All’epoca la popstar era fidanzata con Anwar (ultimogenito della dinastia Hadid di Nazareth) ma la sua empatia verso Gaza e la Cisgiordania trova spiegazione forse più nelle origini balcaniche della cantante (la famiglia Lipa è del Kosovo la cui indipendenza non è universalmente riconosciuta). 

Nominare la Palestina in America è un problema. Tanto che quando Gigi decise, dichiarandolo in un lungo post, di devolvere gli introiti delle sfilate autunno 2022 all’Ucraina afflitta dalla guerra “così come avrebbe continuato a supportare la Palestina”, l’ultima parte del suo scritto fu censurata da Vogue che riportò la notizia in maniera parziale. Cancellando totalmente la parola Palestina – così come gli attivisti sostengono si vorrebbe dalle mappe – dimostrando quanto negli Stati Uniti questo termine sia tabù. O quanto meno lo fosse fino ad allora

La guerra dei due Vogue 

La guerra riguarda la moda perché le crisi condizionano la moda: fanno, ad esempio, che dal massimalismo si passi al rigore minimale. 

Non sorprenda perciò che i protagonisti dei conflitti finiscano sulle copertine delle riviste patinate, promossi a celebrities. Anche perché diventando trend topic social diventano interesse di mercato.

Le cover dedicate al conflitto ucraino e a quello israelo-palestinese, raccontano più di mille editoriali riguardo le differenze di questi due drammi. Riguardo la comunicazione, legittimazione e percezione. 

Subito dopo l’invasione della Russia il presidente ed ex attore comico ucraino Volodymyr Zelensky finì su Vogue America assieme alla moglie Olena, ritratti dalla famosissima fotografa di moda Annie Liebovitz. La First Lady vestita di tutti brand nazionali (puntualmente citati nelle didascalie della bibbia della moda), il presidente in quella che da inizio guerra è la sua divisa, che lo ha reso riconoscibile e instagrammabile (tanto da essere divenuta costume di Halloween, il massimo della consacrazione per un personaggio). 

Inutile dire quante polemiche suscitò la scelta il cui glamour si abbinava poco con le macerie del Paese. 

Più interessante è compararla con lo spazio dedicato alla Palestina sempre da Vogue. 

Stavolta non America ma Arabia (prima differenza). 

L’edizione mediorientale del magazine ha reso tributo ai protagonisti di Gaza che per ovvie ragioni non sono presidenti ma medici e giornalisti. Niente leader quindi (in questa guerra di civili non se ne vedono come non si vedono eserciti o condottieri), niente fotografi superstar (nella Striscia nemmeno  i giornalisti di guerra hanno il permesso di entrare), niente brand (non c’è acqua da bere, figuriamoci vestiti firmati). 

In realtà – e questo è sostanziale – quelle pubblicate da Vogue Arabia non sono nemmeno fotografie ma ritratti (disegni) di civili che si sono distinti per il loro impegno e dedizione divenendo il simbolo di questo capitolo di storia o “eroi” parola in genere abusata dai media occidentali e non ancora attaccata sull’obiettivo coraggiosissimo di Motaz Azaia (uno dei protagonisti del servizio), divenuto l’occhio sulla Palestina per milioni di persone che hanno iniziato a seguito su Ig. 

La kefiah di Tilda: vestire la lotta 

Prima delle Hadid e della guerra in corso la kefiah (accessorio simbolo della lotta palestinese) era già stata su Vogue. 

Nel numero di novembre 2011 dell’edizione British fece la sua apparizione indosso a Tilda Swinton. Inutile dire quanto la scelta dell’attrice e premio Oscar sorprese il pubblico, diviso tra polemica e curiosità. “Un’attrice di Hollywood ha reso la solidarietà per la Palestina chic?” (Has a Hollywood actress made Palestine solidarity chic?) fu uno dei titoli. 

Lei liquidò la cosa così: “É solo la mia sciarpa preferita”.

Argomentazione ovviamente poco credibile detta da un’icona il cui stile, citando Zan Posen, è impeccabile, rischioso e all’avanguardia poiché incorpora  la moda come forma d’arte e design.

Elly Schlein, la fiera della vanità immaginaria

Per curiosità sono andata a recuperare la discussa intervista di Elly Schlein a Vogue che ha prodotto fiumi di polemiche e indignazione.

Senza entrare nel merito del pensiero della segretaria del Pd che non è l’oggetto del mio post (sebbene nell’intervista di pensieri suoi ce ne siano abbastanza per duscutere giorni) ciò che trovo inquietante (e specchio di questa epoca sfiancante) è che, dai commenti, mi ero persuasa si trattasse di un pezzo di moda, mentre il passaggio incriminato sull’armocromia (di cui io non sono fan) non è lungo manco mezzo rigo (su migliaia in cui si discerne esclusivamente di politica).

Questo atteggiamento inquisitorio sul nulla cosmico non ha rotto pure a voi? (A destra e sinistra).

Anche se il tutto (ovvero il niente) mi ha sbloccato un ricordo divertente: moltissimi anni fa – avevo appena iniziato (purtroppo per me) a occuparmi di giornalismo a livello locale – per gioco (provocazione) andai a seguire un consiglio comunale.
Fu una sorta di esperimento (pre-social): l’indomani il mio quotidiano pubblicò in apertura il pezzo istituzionale e di fianco un trafiletto di gossip firmato da me che avevo paraculato look di consiglieri e consigliere.

All’ordine del giorno il bilancio, per cui il collega (serio) non era stato mica morbido.
Non vi dico infatti il giorno dopo in Comune che guerra!
Peccato però che gli unici tagli di cui importasse a qualcuno erano quelli dei capelli!

Morale della favola: mi ero illusa di leggere di make-up e skincare ed invece mi sono dovuta sorbire Obama e battaglie sociali!

Cutro, vite di mezzo


Iraq, Afghanistan, Siria: paesi per i quali non si accendono ceri in Chiesa la domenica quando si va a pregare per la pace inviando carichi di armi. E valigie di denari a dittatori/amici perché facciano il lavoro sporco al posto nostro. O del Mare Nostrum.

Quelle vite ingoiate dal nostro mare, e da una politica criminale, raccontano molto anche di noi. Quei corpi finiti parlano della nostra indifferenza o misericordia selettiva.

Io vengo da lì, da quell’anfratto di mondo dove si sono schiantate quelle esistenze. Un luogo che per natura è di passaggio: tanti fuggono, altri sbarcano. Chi arriva quasi mai lo fa con l’intenzione di restare. La Calabria del Mediterraneo è più uno snodo.

Da calabrese, mi sento prima mediterranea e poi europea. Non so spiegare, è un sentimento che scorre nel sangue. Quella Terra di mezzo mi definisce più di mille trattati. 

Sono nata in un approdo. Quel mare travestito da lido è in realtà da sempre strada di naviganti. 

Le mie coste hanno visto miti, leggende, eroi. Più semplicemente marinai o naufraghi in cerca di tesori e ricompense. 

Questo è il Mediterraneo, da sempre. 

La prima volta che sono stata in Tunisia è stata illuminante: mi è sembrato di guardarmi allo specchio. Eliminati i veli, io e quelle donne eravamo identiche. Una sensazione allucinante e al tempo stesso rivelatrice (mai provata a Parigi o Londra). Quell’impressione mi ha raccontato di me e del luogo da cui vengo. Mi ha raccontato di quanto i confini siano innaturali. Contro natura come chi pretende di alzare steccati in una terra creata per essere un passaggio. 

Come noi che troppo spesso dimentichiamo chi siamo. 

Se esiste un Dio, che almeno lui accolga quelle vite. E ci perdoni.

Il Sanremo delle quote rosa Chemical

E alla fine ce l’ha fatta, il gender! Atteso da fratelli e sorelle d’Italia ha infine vinto il festival di Sanremo.
Il festival di Instagram, spazzato via da un tik tok. Per OnlyFans tocca attendere che Giovanna smetta di ridersela in prima fila: bullizzata da Chiara, vendicata dalle quote Rosa Chemical. Da ieri ha un nuovo follower: Tiziano Ferro ha iniziato a seguirti.

La modernità è più antica di un profilo di coppia, trapassato remoto come le stories. Perché quindici secondi durano più di una maratona finale per chi scalcia per prendersi il suo tempo. Quando faranno i conti a casa, i Ferragnez, dovranno calcolare pure questo: Sanremo è il fiume di Eraclito, non puoi mai tuffartici due volte. È così lungo che il martedi entri progredito e sabato t’informi se c’è posto all’ospizio mentre Gino Paoli e Ornella Vanoni se la ridono. Perché, in questa televendita di highlander, gli unici a non invecchiare sono gli immortali. Mentre noi da casa non sappiamo più se siamo vivi o Mengoni è solo un sintomo di premorte.

Nel festival dei monologhi, sul podio tutti maschi: pare di stare in dark room. Mentre dal fronte la missiva di Zelensky arriva in after. Quando al Plastic hanno già passato la discografia integrale di Paola e Chiara e Mara ha già bloccato Achille Lauro su whatsapp. C’est la vie!

Sanremo dà, Sanremo toglie. Tra uteri, capezzoli, meme, limoni, tutto cambia perché non cambi niente. Masochismo Made in Italy: un’autoflagellazione che da frammenti ci ricompone in massa. Da due passiamo a tre, più siamo e meglio è.

Sanremo, il venerdì santo dei reietti

Sanremo è lo specchio del Paese. E noi siamo Grignani e Arisa: la resistenza. La musica è finita ma noi no. Siamo la Oxa, una tempesta di fulmini in un cielo di cartapesta. Il nostro malessere è così reale, che in un mondo di sindromi precotte, passa inosservato in Parlamento dove fanno un casino per l’ideologia del gender e poi non scrivono un ddl per bloccare Paola e Chiara.

No, ora non fermarci più, Ama. Siamo ai bordi di periferia assieme ad Ultimo e al boato di San Basilio facciamo eco da Prati. Dove il massimo che ti capita è Leo Gassmann in corsetta come ieri intorno a Bennato. «Svegliaaaa» lo diciamo noi a chiunque ci vorrebbe riparati. Siamo la signora col vestitino fucsia che twerka in loggione perché di questa crociera per divorziati, che è il festival, siamo le cubiste.

Non è mai troppo tardi per tornare in discoteca, ci insegna il venerdì santo della Rai mentre ci tiene incatenati al teleschermo invece di uscire a farci tre gin tonic. La discoteca tanto ce l’abbiamo in testa. È un labirinto, avevano ragione i Subsonica, grandi assenti del revival di fine Novecento.
In effetti un revival di tutto, un jukebox dove metti un gettone e ti parte Tranqi funky ed in un beat non sei più sul divano ma in una sala giochi di Camigliatello silano. Finché la macchina del tempo non ti scaraventa in una serata gay clandestina di inizi 2000 a ballare un lento con Giorgia, Elisa e la signora del guardaroba.

Siamo vecchi, disperati, imbarazzanti: liberaci, Ama. A notte fonda però, come alla Francini. Perché noi zitelle, non riprodotte, madri di tutte le drag queen, prima dell’una stiamo al bar a bere con Grignani.
E allora sai che c’è?
Il preserata lo lasciamo volentieri alle Ferragni.

Sanremo, è la volta dei complottisti

Terzo atto. Il centro di recupero a direzione sanitaria Ama inizia a dare segni di squilibrio. Non in puntata che è una strazio, ma nel backstage si parla di bestemmie, risse. Tornano in gara anche complottismo e no vax. Che sogno! Per un momento siamo di nuovo in pieno lockdown. Ed in effetti in quarantena ci siamo.

Le smentite si rincorrono veloci ma poi, a sipario abbassato, la foto definitiva: all’Ariston sono arrivati i cani antidroga. Solo che forse avrebbero dovuti inviarli nelle nostre case in cui siamo chiusi a tripla mandata nella speranza che Giovanna, al terzo giorno di profilo solista, prenda dai capelli qualcuna. Questo è il catfight che vogliamo!

Per il resto, in tema di allucinogeni, siamo già cosi strafatti di festival che ci piace la canzone dei Cugini di Campagna. Non lasciarci soli, Amedeo, siamo fuori controllo. Altro che Grignani e Oxa.

Comunque vada, la rivelazione di Sanremo23, non è certo l’Instagram da record del presentatore (più di 1 milione di followers in 48 ore), ma Oxarte, la società segreta che gestisce carriera e social dell’artista. Roba da far impallidire WikiLeaks. Ed in effetti scopriamo che tra i sostenitori della cantante, oltre a Svizzera, Malta, Serbia, Stati Uniti, Francia, «Italia (che ha votato)», Albania – e ovviamente noi – ci sono i «Sostenitori di Assange». Il mistero s’infittisce: grazie di esistere, Anna.

Se puoi scopri pure come mai tutte e tutti restino in silenzio innanzi alla ferocia dei monologhi. Un contrappasso imposto alle ragazze (non attrici, non scrittrici, non autrici) invitate sul palco, spacciato per opportunità. Ieri è stato il turno della campionessa di volley Paola Egonu della quale, dopo ore di presenza al nostro Superbowl, conosciamo in più solo l’altezza. Il resto è stato tortura. Calata, a 24 anni, tra le fiere del Colosseo a rassicurare i connazionali del suo amor di patria.

Il mondo va al contrario, come la classifica. Del resto nel Sanremo del disagio, i disadattati veri siamo noi che lo guardiamo.

Sanremo e Santa Chiara, una e trina


Vorrei scrivere anch’io una lettera alla bambina che ero per dirle: «Smetti di guardare Sanremo finché sei in tempo perché arriverà il giorno in cui Anna Oxa si classificherà ultima». Mentre tutta l’Italia s’indignerà per un ragazzetto che prende a calci i fiori dell’Ariston credendosi Brian Molko. Nella saga della retorica accade anche questo mentre siamo preda di questa enorme allucinazione di massa in cui tutto si può, perché tutto è già stato fatto (eccetto spedire l’incarnazione stessa del festivàl in fondo a tutti perché il quarto potere urla vendetta).

Nel festival dell’inclusione e degli spiegoni in cui si entra lanciando un messaggio e accaparrandosi un disagio disponibile, si emargina poi chi un disagio ce l’ha reale: sentirsi comoda in questo calderone di selfie, meme, like, lezioncine, paternali. Una volta si ribatteva a chi era troppo superiore per stare sul divano assieme a noi che Sanremo non è musica, è televisione. Adesso è ufficialmente Instagram.

La protettrice delle influencer è beata non solo perché caritatevole (ha il merito di aver devoluto il proprio compenso alle donne vittime di violenza) ma soprattutto per il dono dell’ubiquità: si palesa contemporaneamente nelle stories e nel teleschermo. E chi guarda non sa più se è spettatore o follower. Chi dissente, invece, è immediatamente hater e ditemi se questo non è un miracolo?
Chiara Ferragni da Cremona che si manifesterà nuovamente nell’ultimo atto della parabola, che per comodità chiameremo direttamente morale, ha però un’ultima prova da affrontare prima della canonizzazione: il martirio. Dopo aver creato il profilo autonomo di Amadeus, altro che ira di Zeus, dovrà vedersela con Giovanna.

Sanremo, belve alla riscossa per Paola e Chiara

Hanno aperto le gabbie, e siamo usciti: le belve. Sodomiti attempati e redivive perpetue che da due decenni attendevamo Paola e Chiara. Ci perdoni Francesca Fagnani, recente icona queer, ma nella vita esistono delle gerarchie.

Un Sanremo da riavvolgere al contrario come un disco satanico (avvisate l’onorevole Morgante) quello del secondo atto, in cui una comunità di reduci (di Muccassassina e Plastic) ha rivendicato il proprio diritto di fare ancora Furore. E così sia: vamos a bailar esta vida nueva alla faccia di chi ci vorrebbe a dibattere di Rosa Chemical. Grazie, abbiamo già dato.

Povero Libero, oggi sì che avrebbe potuto titolare “Omosessuali alla riscossa”, peccato si sia bruciato il claim al Primo maggio per Zan e Fedez, spedito ieri in crociera per non alimentare sospetti di monopolio. La notizia è che il marito di Chiara Ferragni ha eseguito il suo monologo durante un down social.

La navigazione di Ama è andata avanti invece liscia, senza mareggiate. La festa dell’equipaggio ha avuto il momento più trasgressive con i Black Eyed Peas che hanno visto una Ventura scatenata in platea in rappresentanza, essendo il festivàl dell’inclusione, di tutte le zie ai diciottesimi di nipoti che vorrebbero sotterrarsi. Quelle zie siamo noi.

E adesso passiamo alla parte ostica: i monologhi rosa. Quelli inventati da Ama per giustificare il termine co-conduttrici invece di valletta che in tempi di nuovi linguaggi non si può più usare. E che al pubblico non è dato attaccare sennò sei misogina o, peggio, invidiosa. Manco alle medie.
I compromessi della guerra al patriarcato: può prenderne parte chi la capitalizza ma guai a dire che un intervento resti un intervento (un compitino) e con la conduzione non c’entri proprio nulla.

La Fagnani non ha certo bisogno di adulazioni, si piace già tantissimo. Per cui ci esonereremo dallo sviscerare il suo scritto perché già dalla lettura dei nomi dei concorrenti in gara sul cartoncino era chiaro che sul palco dell’Ariston ci fosse capitata una professionista.

Il tetto di cristallo invece resta là, in questa notte di sole. Furore Furore.

Mondiali del Qatar. Centocelle tifa Marocco!

Sono stati dei mondiali controversi questi giocati per la prima volta nel deserto, in una petroliera. La gioia, il sogno, la favola del Marocco però è reale. La prima volta per una squadra africana e araba alle semifinali di una World Cup. La rivalsa di un mondo considerato terzo e dei colonizzati sui coloni.

Esclusa l’Italia dai giochi io ho scelto di tifare per una squadra del Mediterraneo che poi è la zona del Mondo da cui vengo anche io. Sono calabrese e non sono lontani i tempi in cui gli immigrati eravamo noi: considerati “africani” quando sbarcavamo ad Ellis Island e “maruchin” in Piemonte quando durante l’industrializzazione i nostri nonni divennero manovalanza del Nord ricco ed “evoluto” che li accoglieva con cartelli “non si fittano le case ai calabresi”.

La memoria storica è più corta di una sigaretta dopo uno shot. Anche per noi terroni che oggi inviamo esponenti della Lega in Parlamento e nel mentre diamo la caccia ai nostri fratelli del Mediterraneo dimenticando che fino a pochissimo tempo fa loro eravamo noi.

Lo sport, e con sport intendo il calcio, sempre più spesso assume un peso eccessivo rispetto a ciò che dovrebbe rappresentare. Stavolta però un peso specifico lo ha realmente se ci fa interrogare sulla nostra identità. Se ci fa domandare se sia giusto boicottare il Qatar che non rispetta i diritti umani mentre si prenota un biglietto per i gay pride di Tel Aviv.
In piazza, e anche in campo, ieri sventolavano assieme alle bandiere marocchine anche quelle palestinesi perché questi giorni che rimarranno impressi nella storia del mondo arabo e africano non possono escludere gli oppressi più invisibili della storia contemporanea.



Gran parte dei giocatori della nazionale magrebina sono nati e cresciuti in Europa e giocano in team europei. Da naturalizzati avrebbero potuto gareggiare – come accaduto in passato – per nazionali europee e invece hanno scelto di portare in campo i colori del loro Paese d’origine. E questo è un fatto politico.
Sono figli di immigrati che hanno deciso di regalare un sogno e una rivalsa ai sacrifici di madri e padri che in Occidente sono sempre stati “gli ultimi”. E di donare rappresentazione a tutte le “seconde generazioni” che pur essendo nate, avendo studiato e lavorato assieme a noi (e quasi sempre per noi) continuano ad essere “gli stranieri”.



Ieri a Roma, come in tutto il mondo, è andata in scena una grande festa. La gioia ha infiammato le vie di Centocelle, il quartiere ad est della Capitale che più somiglia al mondo reale. E per una notte siamo stati tutti marocchini.
Del resto noi calabresi lo siamo stati già per così tanto tempo che sarebbe stato assurdo non esserlo proprio adesso. Forza Morocco 🇲🇦

Il neoproibizionismo – my fucking quarantine diary part VII


Il mondo si prepara a issare il sipario dopo le generali. Nei backstage c’è fermento. I superstiti impazienti già hanno preso posto in platea mentre, nel foyer, le chiacchiere tornano a fare da padrone. Si inveisce a caso, in attesa che il cellulare del parrucchiere torni libero per prenotare taglio e colore. In fondo alle scale c’è persino un gruppetto di negazionisti ariani che manifesta contro l’esistenza del virus: le immagini dei feretri sulle camionette militari sarebbero una farsa come il “moon hoax”, la balla dell’allunaggio opera di Kubrik, prodotta dalla Nasa per sferzare un colpo ai russi in guerra fredda. 

Il rumore è tornato prima della vita. Forse avrebbero dovuto internarci per sempre.

È incredibile che sia venerdì.  

Gli ultimi giorni li ho trascorsi imparando a tenermi a galla in queste acque ignote. Resto dove si tocca. 

Questa maledetta prudenza è l’ultima compagna con cui avrei sperato di dividere il mio tempo. Mi tedia come un astemio che mi marca ad uomo mentre sono in fila al bar. 

(Annoto tra le cose da fare nella vita bonus: “eliminare gli astemi”) 

Un vento caldo soffia sulla mia pelle ed è come un mal d’Africa: provo di nuovo qualcosa ma somiglia a un rimpianto. Sono una Lamborghini ferma in garage nelle mani d’un apprendista elettrauto che fa prove di rianimazione sul mio cuore scarico. Mi riaccendo, accelero, freno. Vorrei sfrecciare libera per le strade e affrancarmi da questo senso d’impotenza che mi castiga il corpo.

Che ho fatto in tutto questo tempo? 

La mia mente è assurda: programmata a rimozione, spazza via tutto ciò che non le garba come una massaia frettolosa di sparecchiare. Persino in quest’occasione non tradisce la sua natura: se provo a fare un riepilogo dei mesi appena trascorsi ho serie difficoltà. Sono passate poche lune dal mio rilascio eppure la detenzione perde già contorni come se le ruspe si fossero subito azionate per demolire quest’edilizia del dolore allestita nel cantiere dove sarebbe dovuta sorgere la mia vita

Come ci sono finita in questo gran casino?

 Ero al bar sotto casa a Roma a sfogliare quotidiani, leggevo d’un regista trovato morto in quarantena a Wuhan assieme al resto della sua famiglia, tutti sterminati dalla nuova Sars e d’un tratto mi ritrovo a Cosenza assieme alla mia di famiglia in quarantena pure io; il tempo di compatire i cinesi dai balconi che a quei balconi c’eravamo noi. Per il resto profumo di biscotti, retorica e bicchieri di rosso mandati giù come gocce di veleno. Anestetici emozionali, fard e fuochi fatui. E poi gatti, gatti e ancora gatti. 

Quanti felini servono per sopravvivere ad una pandemia sola? Mi domando mentre dalla moderna Olanda altre intellighenzie hanno decretato che per noi gattare sarebbe prudente adottare un micio fisso. Basta randagi raccattati in strada, solo esemplari in semilibertà che tornano alla ciotola timbrando pure il cartellino. 

Che orrore questo nuovo mondo in cui tutto è misurato col centimetro: la fila nei supermercati, le sedute dall’estetista e ora pure il numero di rognosi con cui infettare i nostri talami.

C’è chi dice che il virus sia già un ricordo lontano. Non ne ho idea, per buon auspicio mi sono messa lo smalto. Man mano che il gioco passa di livello aggiungo un pezzo di me alla persona che avevo smontato e riposto in scatola. Un vezzo, un retaggio borghese, qualcosa che mi ricordi che un tempo sono stata viva e incandescente come l’acetone che inalo a pieni polmoni in onore di quel popper che a 20 anni quasi mi stese in un cesso del Goa. 

Chissà se torneremo mai a ballare…

Questo è l’ultimo weekend della prima fase del neoproibizionismo prima del debutto nel mondo degli automi. Plexiglass, file, armature. Sotto quelle mascherine potrebbe esserci di tutto. Anzi peggio: c’è tutta gente già censita. Finiremo per accoppiarci con conosciuti (il nostro incubo peggiore sta per avverarsi)! Sento la mia vita così finita che quasi quasi ci spero in un’invasione aliena.

Un marziano è sempre meglio che smezzarsi pizza e covid col vicino.