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Parigi, angeli e resistenza

Ritorno a casa: tempo di mettere ordine, tempo di conclusioni. Tra tutte le cose che mi hanno emozionato, colpito, messo ansia, entusiasmato, spaventato di Parigi, questo piccolo disegnino è la cosa che più mi ha aiutato a capire come tante contraddizioni possano convivere e sublimarsi in una rara armonia in questa città sbattuta dalle onde ma che non affonda.
Ovunque andrai per la capitale di Francia sentirai stranieri sentenziare su quanto i parigini siano arroganti, ed è vero. Però proprio questa loro tracotanza, secondo me, è ciò che ha gettato le basi alla resistenza che poi è il sentimento che più si avverte trascinandosi come formiche senza pace da un arrondissement ad un altro.
Ho visto gente vestita a festa tracannare cocktail e fumare sull’uscio del Bataclan mentre a me solo l’insegna metteva la pelle d’oca. Ma la prepotente bellezza di questo luogo che ha braccia grandi da ospitare tanta incoerenza ha messo a tacere gli spari che rimbombavano nella mia testa e sussurrava “Fluctuat nec mergitur”.
(Questo angioletto è comparso su tanti muri di Parigi dopo gli attentati ed è opera di un artista che ha deciso di sporcare la sua città di pace)

2016, tocca pedalare

Primo gennaio, tempo di bilanci e buoni propositi. Dell’anno appena andato in fumo posso dire senza esitare che è stato uno schifo. Il primo senza mio padre, incastrata in quello che più che un lavoro è una pena da scontare, in un luogo in cui mi sento sempre più ai margini. Ho smesso pure di scrivere, cazzarola. Ed io senza scrittura sono niente. Non ho senso pratico, dimestichezza con la burocrazia, non so fare le torte. So solo tradurre le sensazioni in parole. E quando ti mancano pure quelle – sensazioni e parole – significa che non sei più tu. A volte infatti me lo domando se sotto questo strato di cerone c’è ancora la ragazzaccia di prima. Quella che camminava sola di notte sicura di spaventare lei i malintenzionati.
Di buono c’è che, negli ultimi dodici mesi, oltre ad una certa dose di cinismo, ho accumulato pure una certa dose di cosmetici e ciò mi rende vagamente soddisfatta. E anche vagamente carina. Per il resto, per fortuna, ho le persone che amo (sempre le stesse),il gatto e la bicicletta (new entry). Quando pedalo fino ad alienarmi dalla realtà intravedo la sfocata illusione di poter iniziare ancora una volta da zero. Se ho un talento è proprio quello: pedalare e inventarmi da capo. Che poi è anche il mio buon proposito del 2016. Mi piacerebbe ritrovare la mia tracotanza senza lasciarmi persuadere che quelli di tutti siano i desideri miei. Mettere una barriera di sicurezza ai sogni dovrebbe essere la nostra unica missione. Se ci levano pure quelli siamo proprio niente. Come me ora. Io che a conti fatti, in 38 anni, non ho combinato nulla di buono eccetto – e questo è il motivo per cui in extremis salvo il 2015 – riuscire a non essere invitata a nessuna tombolata

Limonate e vuoto cosmico

  • imageVorrei tanto concentrarmi sulla ricerca di un nuovo e vero lavoro, sul futuro, su un altrove in cui traslocare la mia esistenza, sull’orologio biologico che non ne vuole sapere di battere. Superare il blocco dello scrittore. Avere già una nuova serie da guardare. Trovare motivazione in questa campagna elettorale che attraversa Cosenza e Roma, le mie città, e appassionarmi per qualcuno o qualcosa. Analizzare le ragioni del Pd, dire la mia su delfini e cinghiali, partorire qualcosa di arguto sull’eredità di Casaleggio. Avvertire ansia per clientelismi, voti di scambio e infiltrazioni mafiose. Per il clima, le trivelle, le carni rosse e le schede bianche. Vorrei aver voglia di ribellione, scoop, scandali, inciuci, curcuma, noodles di zucchine, buchi, trasversalismi e aperitivi a scrocco. Di far sentire la mia voce, esporre un’opinione, prendere posizione. Avere un parere sulla giuria di Cannes senza dimenticare una brillante digressione sulle primarie dem americane. Vorrei aver già scelto tra Hillary e Sanders. Aver deciso se andare a Milano o a Roma. Se uscire in bici o prendere la macchina. Se andare a votare o meno. Avvertire una qualsiasi sensazione, preoccupazione, interesse, stimolo che frantumi questo vuoto emotivo e che non riguardi Beyoncé che finalmente ha sputtanato le corna di quella merda di Jay Z

Make up, accidia ed autolesionismo

Il trucco per me non è una passione, è un disturbo compulsivo. Ed è proprio la compulsione che ogni giorno mi spinge ad aggiungere su Instagram nuovi account appartenenti a guru (o perfette sconosciute) del make up provenienti da ogni angolo del pianeta con particolare predilezione a quelle Made in Medio Oriente. Perché è lì che risiede la Mecca del beauty che ha il volto paralizzato di esemplari di femmine ricche, dai capelli d’ebano, pelle olivastra, senza imperfezione alcuna come le loro makeup station. Instagram è per me diventata una scatola cinese in cui non v’è traccia delle portinerie di Facebook (di cui invece guru sono io) ma in cui ogni giorno scopro tesori e illuminanti infiniti, costosi e che non posso permettermi soprattutto perché introvabili in questo angolo di mondo in cui invece sono confinata io. C’è da dire però che in fondo a quella scatola il tesoro più prezioso che ogni giorno scopro non è il nuovo Glow kit di Anastasia ma il coraggio. Il mio a presentarmi ancora in pubblico dopo essermi torturata per ore con queste fregne assurde – quanto i loro beauty – che mi ricordano quanto sono miseraimage image image image image image image image (altro…)

Piazza Kennedy, vent’anni dopo. Ed il cuore batte ancora

Quant’è ingiusta la vita, prima ti fa provare il liceo e poi ti schiaffa in un mondo di vecchi, brutti, pieni di tasse da pagare e figli da prendere a scuola. Che schifo. L’esistenza dovrebbe andare alla rovescia: così invece di perderci potremmo ritrovarci. Belli, senza rughe, col cuore in gola ed un mondo nel diario. Come quando facevamo la miscela al Sì per fare le ronde a piazza Kennedy ed i nostri genitori, giovani pure loro, le facevano intorno a noi.

 

Della mia piazza Kennedy è questo che mi manca: il vagare senza meta. Ma come se fosse una missione. Il non avere bisogno di nulla, perché ci bastavamo.

Chi l’avrebbe mai detto che la giovinezza sarebbe diventata un nodo in gola? Come quello provato ieri mentre dopo 20 anni lasciavamo di nuovo quel metro quadro in cui i nostri cuori avevano battuto all’impazzata pedinando bulletti di quartiere da cui puntualmente venivamo respinte. Ignorate, per l’esattezza. E per fortuna.

Essere ignorate era bellissimo. Essere delle ultime era stupendo.

 

Io e le mie amiche eravamo il gradino più basso della scale sociale di un luogo grande pochi passi e che ci sembrava l’universo. Sotto di noi solo i freaks. Eravamo strane e male assortite. Ma la mano non ce la lasciavamo mai. Di tutti quelli che abbiamo inseguito senza pudore (e senza parlare) dalla Concessionaria al Mazzini, dal Bar Carbone a Marcello, all’appuntamento di ieri, come da pronostici, non si è presentato nessuno. Del resto ce lo aspettavamo, nessuno di questi si è mai nemmeno iscritto su Facebook per paura di essere nuovamente rintracciato. Forse finire gli orali degli esami di Stato, voltarsi per cercare lo sguardo degli amici e ritrovarsi noi (perfette estranee) in aula non è stata proprio la bella esperienza che avevamo ipotizzato quando ci siano presentate allo Scorza a regalare l’ultimo trauma al più bello e dannato degli anni Novanta, Pietro. Piaceva a me e all’amica mia – cosa inconcepibile adesso – ma allora si poteva fare. La parola stalking non era stata ancora inventata, e noi già lo praticavamo di gruppo.

 

Quanta gente inutile abbiamo tallonato. Non so nemmeno perché li inseguivamo. Non volevamo nulla: non cercavamo attenzioni, affetto. Di certo non cercavamo sesso. Fondamentalmente ci piaceva solo inseguire. Appostarci dietro ad uno e rincorrerlo starnazzando mentre dall’altro una più lucida (si fa per dire) ci ammoniva: «Adesso state per fare una di quelle figure che peggiori al mondo non se ne possono fare».

Ma che ce ne fregava?

 

La cosa più tremenda che la vita da adulte potesse propinarci è stato farci fare i conti con l’apatia , un’emozione prima sconosciuta che ti entra dentro e si nutre delle altre. Ti infetta, te le le risucchia. Quant’era bello invece soffrire. Struggersi d’amore ad una cabina telefonica per qualcuno di cui manco sapevi la voce se non per il «Pronto». Quant’era stupendo raccattare gettoni, trovare numeri di rete fissa sull’elenco di un bar, chiamare a raffica e poi riattaccare.

La cosa più brutta che l’epoca contemporanea potesse fare è stato rendere obsolete le telefonate anonime.

 

Poco prima che scattasse l’ora legale, ieri, ci siamo regalate un sogno: le lancette le abbiamo messe indietro di più di due decenni, noi. Non c’erano figli, mariti, compagni, colleghi, piattole, piaghe, ragadi e tutti i prodotti con data di scadenza oltre il 1995.

A piazza Kennedy siamo arrivate in pieno stile piazza Kennedy: appuntamento a piazza Fera, puntatina da Pranno e poi vasca.

Mentre a casa mi preparavo, e durante tutto il tragitto che dalla farmacia Serra porta al Cinese di via Alimena, sentivo l’elettricità sotto pelle. Quell’aspettativa, quella frenesia ingiustificata e perduta che mi mancava da troppo. Almeno quanto mi mancavano le aquile, le vere (uniche) grandi assenti. Perché per il resto, ieri come allora, non mi mancava proprio nulla.

In fondo chi dopo 20 anni è tornato in quel luogo non cercava qualcosa o qualcuno. Se non se stesso.

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Sanremo. Incontri ravvicinati con uno Zero

di Carla Monteforte

La cosa più bella di questo Sanremo è che finalmente è finito e possiamo tornare a piede libero.

Dopo cinque giorni di domiciliari arriva la conferma che, con la riforma elettorale del Governo Conti, pronostici sui vincitori non se ne possono fare e che se fino ad un paio d’anni fa c’era rimasta qualche certezza adesso siamo precari pure all’Ariston.

Nonostante le Cassandre lo avessero annunciato, infatti, chi aveva mai creduto alla possibilità che una a cui pure lo stilista ha ritirato gli abiti poteva conquistare il podio? (Preceduta da una reduce del precetto pasquale) Assurdo.

Assurdo almeno quanto i tre quarti d’ora di monologo di Renato Zero che, dopo aver cavalcato l’Onda gay tra i ’70 e gli ’80 (con non pochi profitti), nel festival Arcobaleno si presenta vestito a lutto per celebrare la morte di se stesso. Silenzio sulle unioni civili, non una parola sulla stepchild adoption (nonostante un’adozione da single datata 2003), se non uno strambo riferimento a taluni “alieni”, forse metafora democristiana di “omosessuali”. Fa bene la Bertè a non parlargli più.

Il videomessaggio di Loredana che saluta Patty da Niagara Falls (la quale, grazie all’auspicio, incassa il premio “Mia Martini”), è stato il momento cult dell’ultima puntata e dell’intero Festival. Anche perché altri non ce ne sono stati.

Superospiti della porta accanto, giullari di corte, abiti da grandi magazzini. L’alta moda è stata la grande assente di questa edizione in cui forte si è sentita la mancanza delle dive sanremesi che di grazia felina illuminavano la scalinata, in Versace fasciate.

Una carrellata di femmine goffe e dai capelli unti si sono alternate facendo sospirare la frangetta bombata di Fiordaliso, il riccio jungle di Marcella Bella e persino il rosso Flavia Fortunato. Perché Sanremo si nutre di orrido, ma di orrido che muta in poesia.

Per il resto, compresa la vincitrice (degli Stadio), gran parte delle canzoni sono già belle e dimenticate. A parte quella di Rocco Hunt che troverà riscatto in feste patronali e auto smarmittate a Scampia; quella di Arisa (identica alle precedenti). E quella di Bernabei con la quale, se saremo così sfortunate da sopravvivere, assisteremo all’esaltazione in pista dei più squallidi esemplari femminili, ogni qual volta un dj della costa, trasmettendola, deciderà di rimarcare quanto fa schifo il posto in cui suona e il mondo dove vive.

Un mondo in cui Cristina d’Avena è acclamata special guest a furor di web; in cui a decretare il vincitore del festival non è più il televoto (ma un Parlamento di nominati); in cui uno che ha scritto una canzone che si chiama “L’altra sponda” si converte alla parrocchia. Un mondo in cui per festeggiare un altro Sanremo tocca aspettare il 2017.

Dolcenera, Annalisa, Belen. È il festival delle schiaffo

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La quarta puntata di Sanremo è stata figa come una festa in cui tutti sono ubriachi mentre tu non puoi farti manco uno shottino perché hai iniziato la dieta. Resti perché è un impegno preso ma nel mentre sogni di fare un bagno in una vasca di Campari, come Morgan. O come Belen che, dopo l’apparizione di Virginia Raffaele (e del suo stacco di coscia) ha provato ad affogare la bile nella schiuma. E, fallito il tentativo, ha optato per la superiorità postando un frame delle tube di falloppio della copia, con complimenti annessi. Un grande schiaffo morale!

E non è stato l’unico, perché lo schiaffo è il vero trionfatore della 66esima edizione del festival. Un sempreverde dell’hairstyle sanremese, adottato di sera in sera da tutte le concorrenti: da Noemi ad Irene Fornaciari passando per Annalisa e Dolcenera che, per essere più extreme ’80, ha dormito pure con schiuma e inventaricci, facendosi svegliare un secondo prima di sedersi al piano, ancora in stato catatonico. Beata lei.

Non è successo proprio niente in questo venerdì rubato alla vita sociale ed investito in quella social. Non una gaffe, non un precario che tenta il suicidio, manco uno straccio di allarme-bomba. Niente di niente. Neppure un pederasta con utero in affitto imbarcatosi dalla moderna Bretagna per minacciare la famiglia tricolore. Tanto che ad un certo punto qualcuno degli autori, temendo il calo di ascolti, ha pensato di rivolgersi al pubblico di Buona Domenica annunciando come super ospiti i due Marò. O qualcosa del genere. Ma i due soldati hanno chiuso la busta perché di italiani fuori concorso ce n’erano già troppi.

Superstar della semifinale una padana: Elisa. E la notizia non è che dal suo ultimo shampoo saranno passati non più di quattro giorni ma che, se a finire nel ruolo che fu di Madonna, Bowie e Simon Le Bon, ce l’ha fatta una senza smalto allora ce la possiamo fare tutte. Anche Debora Iurato in H&M. Sebbene tutto questo orgoglio patriottico sia contro tutte le regole del festival della canzone italiana, caro Conti.

Nato negli anni Cinquanta, quando gli italiani, usciti da due guerre, sognavano l’America di cui Elvis divenne incarnazione e dalle cui costole nacquero Bobby Solo e Little Tony, Sanremo l’esterofilia ce l’ha proprio nel dna. Come noi. Per cui, signor direttore artistico, l’anno prossimo si ricordi di investire due spicci in una bella boyband da crisi isterica. Perché senza, non possiamo sognare una terra promessa e nemmeno un mondo diverso.

 

 

 

Lazzaretto Connection

Dove abito io è un luogo di quarantena dove Dio o chi per lui ha confinato tutti i freaks e i soggetti ad alto rischio che sfuggivano al suo controllo per limitarne l’azione in un raggio di un metro e mezzo formando così, da un’accozzaglia umana, quella che wikipedia chiama una città. Bella pensata proprio! Adesso siamo tutti qui, gomito a gomito. Gente che non si sarebbe mai scelta nemmeno per raggiungere il numero minimo di posti in pullman per andare a chiedere una grazia a Padre Pio.

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La solitudine dei piccoli centri è quel mal d’Africa che ti fa pensare sospirando ad altri mondi in cui forse ci sono simili tuoi. Perché tu con questi qui non hai proprio nulla a che vedere. Sei ET che scorre la rubrica sperando che si faccia vivo un altro marziano, un superfigo super avanti come te, in cerca di solidarietà, un club decente e torre di controllo. La solitudine dei piccoli centri è quel sentimento di ingiustizia che si prova ogni volta che apri Youtube e compare il video dell’ultima sciacquetta divenuta milionaria mentre tu sprecavi tempo a lamentarti di gente allucinante imbucatasi nella tua vita come ad un party free-bar. È quel pugno nello stomaco che si prova ad ogni sconfitta subita contro la banalità. Qui vince sempre. Tutto ciò che somiglia ad un tubino di Zara ha sempre la meglio. Non resta che cercare qualcosa di interessante sotto la crosta piccolo borghese che ricopre i marciapiedi ed i suoi abitanti dalla piega dritta e ed i mocassini ai piedi. Gente annoiata, noiosa e senza eros che prova a dare senso alla propria esistenza cercando sesso riciclato e insapore in incontri falso-impegnati inutili quanto i loro punti luce che tanto la dicono sulla loro passionalità.

Da chi abbiamo preso noi, non si sa. Noi di sangue nelle vene ne abbiamo fin troppo, tanto da far stare in fibrillazione le nostre amiche – ormai donne oneste – che approfittano dei nostri momenti di fragilità accanendosi in disperati tentativi di convertirci alla loro di parrocchia, quella delle coppie approvate da Dio finalizzate alla prosecuzione della specie o, quanto meno, alla prosecuzione delle pizze del sabato. Proprio quello di cui abbiamo bisogno mentre già siamo annoiate: pensare di dover sostenere anche il tedio di un altro cristiano spaiato. “Tedio al quadrato e una spina media per noi, grazie!”. Questo il baratto: le nostre notti insonni e agitate piene di esseri assurdi e sbagliati in cambio di un essere assurdo e sbagliato solo. Bell’affare!

È davvero dura farsi accettare. È davvero dura difendere il proprio diritto ad essere errori della natura. Prodotti con difetti di fabbricazione di quelli che prontamente vengono ritirati dal commercio e che poi finiscono sugli scaffali dei collezionisti, ad un costo centuplicato rispetto a quello di listino. Siamo rarità, ecco. Mostri di valore. Specie da proteggere come si proteggono altre bestie a rischio estinzione e a noi le bestie ci piacciono assai, più della pizza.

Che la margherita aspetti almeno finché nel bosco ci sarà un ultimo orco da cui farci sbranare.

 

(articolo pubblicato su www.malesoulmakeup.wordpress.com)

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¿Qué he hecho yo para merecer esto?

 

Vivere in una città  grande quanto uno sputo è come coabitare in cattività con esemplari che gli zoologi hanno catalogato come della nostra stessa specie per pura approssimazione. Sciatteria. Qualunquismo. Non siamo tutti uguali, questo è poco ma sicuro. Eppure ci tocca stare gomito a gomito con ogni sorta di subumano che il più perverso tra gli architetti ha deciso di piazzare sul nostro stesso pianerottolo. Sadismo puro. Perché poi? Per declassare la nostra biografia a romanzetto di bassa lega. Da sfogliare durante la posa di una tintura rosso mogano. Gesù!

Ma che abbiamo fatto per meritare questo?

Noi, noi che eravamo destinate a una gloria in mondovisione ci troviamo a dovere dividere uno sgabuzzino adibito a camerino con quattro aspiranti starlette che  Eva Harrington non vorrebbe come cameriere.

Ma come abbiamo fatto a finire in questo guaio? Come hanno fatto queste ad imbucarsi al nostro ballo?

Sempre colpa degli architetti. Una volta le nostre simili vivevano in case munite di ponti elevatoi, fossati e tanto di coccodrilli malnutriti per impedire l’ingresso ai predatori. Poi qualche vanesio archistar un giorno s’è svegliato e ha deciso che, abbattute le mura di cinta, i quartieri sarebbero stati molto più cool. Che boiata!

Quant’è difficile sopravvivere in un mondo in cui il parassitismo sociale è l’hobby più diffuso. In un mondo in cui una cosa è totalmente trasparente finché una trend-setter non la raccatta liberandola dal proprio anonimato.

Diffidare sempre dalle modaiole, dalle adulatrici e dalle arrampicatrici sociali in genere. L’unica ricchezza vera è la personalità, proprio per questo continuamente nel mirino di affamati e accattoni.

Rendiamo grazie ai nostri nemici dichiarati. A chi ci urla tutto il suo disprezzo in faccia. Gente onesta. Persone rispettabili con un guardaroba proprio. Amiamo soprattutto chi ci ignora. Chi ci trova invisibili. Chi non spia nel nostro piatto dal tavolo accanto per vedere cosa abbiamo ordinato ed ammiccare al cameriere che abbiamo deciso di lanciare nel jet set sussurrandogli: “lo stesso”.

Che pena.

E’ dura essere noi. Davvero dura. Per ogni straccio di privilegio ci sono mille controindicazioni da sopportare. Mille sanguisughe da allontanare. E’ come restare imprigionate in una puntata dei Visitors: non sai mai quale sottospecie di rettile si nasconda dietro la piccola fiammiferaia.

L’apparenza è quello che ci frega. Le innumerevoli, scadenti, mentite spoglie dietro cui il demonio nasconde le più squallide e patetiche delle sue creature. Maschere made in China che, fortunatamente, in non troppo tempo rivelano ogni difetto di fabbricazione e finiscono dove sarebbero sempre dovute stare: nella pattumiera.

Non è che siano fesse o, peggio ancora, buone. E’ che ci interessa solo essere noi. Siamo drogate di noi.

Inconcepibile, no?

L’egocentrismo è uno stupefacente assai singolare. Stordisce a tal punto da sfociare in altruismo. Paradossi della chimica.

Così mentre noi siamo impegnate in attività d’altissimo livello sociale, artistico e culturale tipo farci autoscatti in bagno, il resto della casa è lasciato al proprio destino. Porte e finestre tutte spalancate, confidando nella clemenza dei ladri.

E sapete perché? Eccessiva ingenuità? Macché! (Magari!) Pigrizia totale. Siamo le peggio. Diffidare costa fatica. Fidarsi è molto meno faticoso, invece. Siamo delle fottutissime passive. Ci secca talmente tanto leggere il manuale d’istruzione del metal detector che preferiamo correre il rischio di far imbarcare terroristi d’ogni sorta sul nostro jet personale. Sperando magari che tra questi qualcuno sia un figaccione superdotato e che prima di farsi esplodere ci regali attimi di insana passione. Un amore tossico ad alta quota per cui valga la pena finire in milioni di pezzi in pasto agli squali.

E su tutto questo l’esperienza poco può. I nostri errori resistono felicemente accatastandosi gli uni sugli altri. L’unico modo che conosciamo per sopravvivere. Saltellare da un incendio ad un altro.

Siamo accumulatrici seriali. Per guarire servirebbe una lobotomia. O un incendio più grande. Più forte.

Più forte persino della nostra noia.

 

Carla Monteforte