CALL ME – Il darwinismo del telefono: ovvero la sua evoluzione inversamente proporzionale alla nostra (Capitolo I) 28-05-2014

 

Lavita è quello che ti accade mentre stai aspettando che un cretino ti richiami.

Avremmo avuto bisogno di un John Lennon anche noi. Di qualcuno che ci amasse e ci spiegasse che la felicità è una pistola fumante. E, soprattutto, che ci telefonasse tutte le sere.

A  noi, non ci chiamava mai nessuno.

Ovviamente se in quel nessuno non si considera il segaiolo che mi cercava ansimando nel cuore della notte, i militari, gli ex mutati in stalker ed il kuwaitiano.

Il kuwaitiano era un altro nano, semi-obeso, con due lunghi baffi made in Medioriente che aveva raccattato A all’Alien. Lei era reduce da uno dei suoi finti svenimenti, quelli che metteva in scena quando si stava annoiando per convincere me, ancora in piena caccia, di tornarcene a casa. L’aveva agganciata con la scusa d’un’intervista. Come, non si sa, visto che lui non spiccicava una parola d’italiano e lei in inglese sapeva solo “Hopelessly devoted to you”. Da questo rimorchio era nata una lunga relazione di amplessi telefonici interrotti. Interrotti da un urlo, al suo pronto, e repentino lancio della cornetta in mia direzione. Ero l’unica a parlare inglese (la scusa ufficiale).

“You have gun in your eyes”, mi sussurrava il barilotto con accento da terrorista innamorato. E altre porno-romanticherie tipo: “Mersedes”, “Via Vinèto”.

 Il kuwaitiano resta tuttora l’unico ricco da cui saremmo state corteggiate in vita nostra.

Lui voleva comprare la nostra compagnia a suon di petroldollari. Noi, sempliciotte, ci credevamo delle mantidi meditando di farci pagare la bolletta Telecom.

Nota dolente.

A quel tempo la nostra unica fonte di sopravvivenza era il bancomat. Tra tutti i lavori che avremmo avuto, il migliore.

Era bello essere figlie di papà: il miglior ruolo possibile in società. E chiunque dica il contrario, dice una cazzata.

Il mondo era un luna park. E noi stavano sempre sul tagadà: in quella condizione di mezzo che sta tra un sussulto al cuore e un conato. Lasocietà era spaccata in due: quelli che si fingevano poveri e quelli che si fingevano ricchi. Noi non ci fingevamo niente: eravamo noi. Non avevamo contezza di alcun altro mondo al di fuori del nostro. Delresto ovunque andassimo eravamo allegramente disadattate (ma questo non scalfiva in alcun modo la nostra autostima: ci bastavamo).

Quelli che avrebbero dovuto essere i nostri simili, alla metà del biennio, per darsi un tono avevano assunto un’aria finto-stressata: “Corsi. Esami. Esoneri.” . Noi non sapevamo nemmeno di cosa parlassero: eravamo turiste. (Questadote ce la saremmo portata avanti tutta la vita)

Ci svegliavamo rosa e fresche come nocepesche al sole e prima ancora di posizionarci in verticale già stavamo pianificando gli imminenti obiettivi di guerra.

La nostra vita era un fine settimana senza fine. Il nostro guardaroba ne era il sintomo più evidente: non c’era un capo da giorno. Tutto stretching e lucido. Avevamo letto nei titoli di coda di Generazione X, credo, che Ambra in tv si truccava con cerone e cipria trasparente. Di corsa eravamo andate da Studio 13, la profumeria teatrale di piazza Cavour, a procurarceli: Kryolan, per cinema e tv.

E che ce ne importava a noi? Non avevamo nemmeno 20 anni e la nostra pelle era quanto di più simile ci fosse alla perfezione. Ci davamo dentro con quello stick fino a spazzar via ogni residuo di parvenza umana.

In foto sembravamo dei fantasmi: ci sentivamo giustissime.

Il bello della giovinezza è proprio questo: essere totalmente sbagliate.