Estate

E la chiamano estate

Lenta scorre l’estate. Un filo d’acqua senza forza che ansima da un rubinetto scassato. Abbiamo sete da così tanto tempo che ci siamo abituate, non l’avvertiamo più. Pure le oasi costruite granello per granello dall’inesperienza sono un vago ricordo. Ovunque, deserto.

Eppure bruciavamo così tanto. Bruciavamo così forte che per non esplodere trascorrevano la vita sotto le più forti cascate del mondo. Così imponenti e violente che il getto ci stordiva e restavamo fradice per giorni. Anni. Siamo rimaste senza sensi per così tanto tempo che, quando ci siamo riprese, era già trascorsa quasi tutta l’esistenza. Da sola. Come una film che scorre mentre in platea tutti dormono. Un party che va avanti mentre la festeggiata è in coma etilico su un divano. Un acceleratore premuto da un conducente strafatto.

Eravamo strafatte, noi. Strafatte di noi stesse. Le più sciocche e viziate macchiette che la terra avesse mai visto. Delle creature oscene che saltellano qua e là senza idea dello spazio e del tempo. Come se il futuro fosse la luce che s’intravede da dietro una tenda. Come se il futuro fossimo noi. Qualcosa che è lì, a portata di mano. E aspetta che nel frattempo decidiamo se piastrarci i capelli.

Che stupide.

La milionesima estate della nostra vita è questa. Che fortuna, no? Un film visto talmente tante di quelle volte che mentre lo replicano possiamo mettere in ordine l’armadio e ripetere le battute col labiale aspettando che la sigla finale giunga a liberarci dalla trama. Chissà, forse tra i titoli, stavolta, scorrerà un nome nuovo. Una malcapitata new entry che ha deciso di fare il grande salto entrando nel cast. Come se da una produzione scadente potesse nascere mai una stella. Di stelle non se ne vede nemmeno una in giro. La mattanza delle speranze e dei rossetti è l’estate.

Uno di quegli orrendi balli di gruppo, con animatore che impartisce ritmo e passi da sotto una camicia improbabile.

Ma come si fa a prendere ordini da gente vestita così?

C’è bisogno di una sana dose di sano classismo, per restare immuni al contagio delle mandrie infette da quel malato spirito collettivo che noi, fortuna nostra, non abbiamo avuto mai. Nemmeno quando ci consumavamo i sottotacchi cercando pace tra un night e cento altri. Eravamo dei proiettili vaganti, tutto qui. Proiettili vaganti in mezzo ad altre pallottole.

Lo siamo ancora. Anche adesso che degli strani tizi,  mossi da chissà quale convinzione, tentano di convincerci che è questo il futuro. Questo bugigattolo traballante che non somiglia a nessuno dei nostri programmi. Che non somiglia a noi.

Forse dovremmo arrenderci. Forse ci siamo arrese chissà quanto tempo fa e non ce ne siamo accorte, sicure com’eravamo di fare in tempo. Tanto i treni, gli aerei, il futuro, da qui, non partono mai in orario.

Intanto l’estate ci gira intorno come una malattia. Un’untrice con fare sospetto che aspetta il calo d’attenzione delle nostre difese immunitarie. Un pusher che fischietta nel quartiere di un paziente appena dimesso da un lunghissimo rehab.

È spietata l’estate. Non dovremmo mai fidarci di lei. E lei di noi.

 

Perversioni di settembre

 

C’è un che di perverso nella fine dell’estate. Al mare gli ombrelloni si chiudono su passioni, e missioni, ancora incompiute, generando una sorta di bulimia emotiva. Mentre più su, trai monti, l’ossigeno dai polmoni fa trekking sin al cervello occupando la vetta dove prima dimorava lo stress. Ma il relax, tra le insidie, è la più subdola: è una vetta che si raggiunge dopo una spossante scalata e che precede una rischiosa discesa. Oltrepassatane la cauta soglia, i pensieri, ormai sin troppo sani e rinvigoriti, vanno in cerca di piste rosse – imbattute – divenendo incontrollabili.

Perché se è vero che rilassarsi è un toccasana, è anche vero che, come ogni medicamento, contiene al suo interno un libretto illustrativo che riporta, alla voce “controindicazioni”, una chiara avvertenza: “non assumere oltre la dose consigliata”. (Altrimenti si rischiano effetti collaterali)

La verità è che nulla stanca più che il riposo. E il fascino della tant’attesa calda stagione – il motivo stesso per cui è tanto attesa – è che come la passione è bollente e (soprattutto) ha una data di scadenza prestabilita. E non v’è cosa al mondo più desiderabile, godibile (e sopportabile) quanto quella di cui s’intravede la fine. È come le offerte speciali di Mc Donald’s, quel panino greco che nessuno comprerebbe se il suo permesso di soggiorno, sulle griglie, non scadesse dopo una manciata di giorni.

Tuttavia, quando volge all’epilogo, ai fortunati che riescono a sopravviverle – come se quel che è stato superato non bastasse – tocca affrontare un’ultima, ennesima fatica: decidere se cedere alle lusinghe di quella forza centripeta che spinge ad aggrapparsi ad un agosto morente, affinché prolunghi il più possibile il suo cursus, come se, colti da indomabile macabro vouyerismo, si volesse assisterne alla dolorosa e estenuante agonia; oppure optare per la dolce eutanasia, lasciandosi trascinare da quella forza centrifuga che conduce nel buio tunnel alla cui fine abbagliante è la temuta luce settembrina. La fine dei giochi.

Che però non corrisponde assolutamente alla resa delle armi. Tutt’altro. Perché, deposti i buoni propositi di giugno – andati in fumo sotto il solleone – tutto ciò da cui si era fuggiti diviene di nuovo, e di colpo, diabolicamente suadente.

Un’indomabile bramosia preme a ritornare a calpestare la vecchia via dei propri errori, dei propri vizi e delle proprie abitudini. Buone o cattive che siano. Quel tragitto in cui si è certi di incontrare luoghi e persone di cui, a finir di primavera, urgeva disintossicarsi.

Perché, superata la canicola, l’unica vera novità è la routine. Un’invitante trasgressione destinata agli esseri umani medi soltanto: malinconici, avversi alle abitudini, soggetti a toedium vitae e normalmente borderline. Ma proprio quando questo dramma raggiunge il climax – quando Amleto deve scegliere tra l’essere ed il non essere – accade qualcosa di sorprendente che tinge di giallo la parabola tutta: un buco nero si apre risucchiando al suo interno gran parte del genere umano. Le spiagge si svuotano, le montagne si spopolano, ma le città, misteriosamente, continuano ad esser deserte. (Roba da chiamare “Chi l’ha visto?”.)

Forse l’indecisione scava profonde trincee. Terre di mezzo, ignote ad amici e nemici -estivi e invernali che siano – in cui, per un attimo ancora, si resta al sicuro. Prima di lanciarsi in una nuova “campagna d’autunno”.

(pubblicato sul quotidiano Calabria Ora il 27 agosto 2008)